Archive for the 'Confessions of a dangerous mind' Category

Cuore di mamma

Prendere la macchina, in una fredda mattina d’inverno, senza alcun motivo se non quello di andare al  centro commerciale, cercare il posto dove si è parcheggiato la sera prima ed esultare perché lì, proprio lì, c’è ancora la locomotiva nera scivolata fuori inavvertitamente durante le operazioni di carico/scarico.

Tornare a casa pimpante, immaginando la gioiosa sorpresa in quegli occhietti, rimasti così delusi all’idea di aver perso la “OCOMOTIBA”.

L’incompiuto

Un numero: da solo non dice nulla, ma inserito in una seppur breve sequenza di dati indica un destino già segnato.

Dopo la sentenza, i dolori, così simili in intensità a sensazioni già provate, ma con un esito ben diverso: li aspettavo, li ho vissuti e ho tirato un sospiro di sollievo per aver evitato ben altri interventi risolutivi. E, alla fine della tempesta, alla conta dei danni, ho riconosciuto quel germoglio incompiuto in mezzo ad altro “materiale”… mi è venuto spontaneo farlo tornare in acqua, l’unico elemento che abbia conosciuto, per farlo sentire a casa nell’ultimo viaggio.

E che sensazione strana rifare in parte la nota trafila clinica, stavolta con opposti scopi diagnostici. Stendersi su un lettino per  una eco che doveva essere ostetrica e di colpo si è trasformata in ginecologica, e ritornare con la mente indietro di due anni, quando quegli stessi mezzi ci hanno fatto ascoltare per la prima volta il cuore del Folletto.

Non ho fatto in tempo a rendermene davvero conto, è passata poco più di una settimana tra l’inizio e la fine, e a conti fatti è meglio così. Sono stupita io stessa dalla mia reazione, dalle mie emozioni così controllate, posate. Ma non represse. Ho pianto il necessario per sfogarmi, quando ormai non avevo più dubbi su quanto sarebbe successo, poi mi sono asciugata le lacrime e ho solo cominciato a sperare che tutto avvenisse nel modo più naturale possibile, e così è stato.

Ho sperimentato l’incompiuto, non sono la prima e non sarò – ahimè – l’ultima. Non mi sento depressa, né inconsolabile per questo e, soprattutto, continuo ad avere un’incrollabile fiducia nella natura. Che sa il fatto suo, e se non c’è stato un seguito vuol dire che così doveva andare,  che quel germoglio non aveva la forza di trasformarsi in rigogliosa pianta.

Communication

La pace viene dalla comunicazione.

La tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione.

L’incapacità dell’uomo di comunicare è il risultato della sua incapacità di ascoltare davvero ciò che viene detto.

Colui che parla senza modestia, troverà difficoltà nel far capire che ciò che dice è una cosa buona.

For 27 years Ive been trying to believe and confide in
Different people I’ve found.
Some of them got closer than others
And someone wouldnt even bother and then you came around
I didnt really know what to call you, you didnt know me at all
But I was happy to explain.
I never really knew how to move you
So I tried to intrude through the little holes in your veins
And I saw you
But thats not an invitation
Thats all I get
If this is communication
I disconnect
Ive seen you, I know you
But I dont know
How to connect, so I disconnect

You always seem to know where to find me and Im still here behind you
In the corner of your eye.
Ill never really learn how to love you
But I know that I love you through the hole in the sky.

Where I see you
And thats not an invitation
Thats all I get
If this is communication
I disconnect
Ive seen you, I know you
But I dont know
How to connect, so I disconnect

Well this is an invitation
Its not a threat
If you want communication
Thats what you get
Im talking and talking
But I dont know
How to connect
And I hold a record for being patient
With your kind of hesitation
I need you, you want me
But I dont know
How to connect, so I disconnect
I disconnect.

Andiam, andiam…

…andiamo a lavorar. E così, da ieri abbiamo ricominciato. Tutto rientra nei binari del quotidiano, da cui a fine anno ho deragliato con così tanta foga da esserne quasi spaventata. Una settimana di stop, fondamentale boccata di ossigeno. Non ne potevo veramente più, il dicembre lavorativo è stato un infermo in terra, a un certo punto credevo davvero di scoppiare. La fatica fisica è andata a braccetto con la stanchezza mentale, e c’è stato una sera che, tornata a casa, sono scoppiata in un pianto disperato e, giuro, sono stata davvero tentata di mollare tutto, di punto in bianco, e rifugiarmi nei mesi di maternità facoltativa che ancora mi spettano di diritto.

Non si può portare la gente così allo sfinimento. Ed invece è proprio questo il diktat di PantaKapò, al di là delle macchiette e dei simpatici siparietti che ogni tanto propone. Che fosse strana, lunatica, molto rigida e spesso insopportabile, lo sapevo già da prima. Ma in questa fine d’anno, ha mostrato la caratteristica che più la distingue: la meschinità. Mi spiace dirlo, i poveri colleghi avevano provato ad avvertirmi, ma non avevo voluto crederci e invece è la triste realtà: siamo in balia di una meschina. La parola è forte, lo so, ma non riesco a trovarne altre. È riuscita ad esaurire il siero magico che la gravidanza/maternità mi aveva lasciato, ovvero la capacità di chiudere tutte le questioni lavorative insieme al PC e riaprirle il giorno dopo: mi sono trovata a sognarmi l’ufficio anche di notte.

Ed è difficile trovare la forza di andare avanti, la forza di farsi ogni giorno un’ora e mezza di macchina per stare altre 6-9 ore in tensione. Lavori male, vivi male. E non riesci a decantare, nemmeno quando potresti. Dell’agognata settimana di ferie, i primi 3 giorni sono stati di pura decompressione… 3 GIORNI!! 3 GIORNI per cominciare a rilassarmi! Non ci siamo. Non può essere. Non DEVE essere.

In questi giorni, ho rimuginato parecchio sulla possibilità di cambiare. Fino a trasformare la possibilità in necessità. La vita è una sola, e il rewind non è un tasto contemplato. Non si può sacrificare la serenità sull’altare del tempo indeterminato. È vero, ho un blindatissimo posto fisso – dopo anni di precariato – ed è l’invidia di tante persone che di questi tempi non sanno letteralmente dove sbattere la testa. Ma non sono felice. Non mi sembra poco, no?

Per come la vedo io, il lavoro deve soddisfare almeno 1 di queste 3 condizioni: essere il lavoro dei tuoi sogni (o comunque darti soddisfazioni), essere vicino casa, svolgersi in un ambiente il più possibile sereno. La mia condizione attuale è 0 su 3. Non sto facendo quello per cui ho studiato ( dopo aver speso 4 anni di sudore per  laurearmi brillantemente in una delle più rinomate facoltà d’Italia, rendermi conto che sto pian piano dimenticando tutto, fa male… e anche un po’ di rabbia), e nemmeno quello che mi è stato insegnato sul campo e su cui ho accumulato una discreta esperienza. Per ora, mi occupo di cose che non solo non so fare, ma, soprattutto, che non VOGLIO fare. E l’ambiente… beh, è dura passare la giornata con una responsabile che passa il suo tempo a cercare l’errore…così, per il gusto di incastrarti, e sfogare così la sua frustrazione.

MA CHI ME LO FA FARE?????

Quindi, il mio unico proposito per il 2011 è: recuperare la serenità lavorativa. Prima cercare di capire che possibilità ci sono di cambiare ufficio (magari… avvicinandosi a casa?) e poi, se le cose non si muovono, troverò il coraggio di lanciarmi davvero in qualcosa di totalmente diverso. Preferisco accumulare rimorsi piuttosto che rimpianti.

(ah, magari tra i propositi ci aggiungiamo anche più di cura per questa casetta virtuale, vah… ultimamente l’ho un pò abbandonata a sé stessa…)

Potrei, in un giorno speciale

Potrei, in questo giorno speciale, dirti che è stato amore a prima vista, che appena ho incrociato il tuo sguardo ho dimenticato tutto il dolore e la fatica del parto, perché l’emozione della tua presenza ha spazzato via il resto.                  E invece ti dirò che quando sei nato ero troppo stanca e provata per sentire una qualsiasi emozione, ricordo però molto bene la sensazione di svuotamento fisico nell’attimo esatto in cui sei sgattaiolato fuori, il sollievo per avercela fatta ed aver evitato un taglio sulla pancia.

Potrei dirti ti ho trovato subito bellissimo e che mai suono fu più celestiale del tuo pianto.                                                            E invece ti dirò che non ti ho trovato né bello né brutto, ma solo disorientato almeno quanto me. E non ho fissato nella mente il tuo primo pianto, però ricordo che quei minuti tra la nascita e il nostro primo contatto – ritardato dai lavoretti di ricamo della ginecologa – mi sono sembrati, questo sì, interminabili.

Potrei dirti che quando ti hanno appoggiato tra le mie braccia, ci siamo riconosciuti al volo, io mamma tu bimbo, e che ti sei calmato appena hai sentito il battito del cuore.                                                                                                                             E invece ti dirò che ero tremendamente intimorita, e che avrei voluto aiutarti di più nella tua frustrante ricerca di un capezzolo sfuggente ma non sapevo proprio come muovermi, con la flebo e tutti i fili delle apparecchiature varie ancora attaccati. Ti dirò che il timore si è trasformato in paura, quando anche il tuo papà è dovuto uscire e siamo rimasti da soli.

Potrei dirti che non vedevo l’ora di uscire da quell’asettico ospedale, per poter cominciare la nostra vita di famigliola, finalmente insieme, nella nostra intimità.                                                                                                                                      E invece ti dirò che avevo il terrore di ritrovarmi a casa sola con un pupetto così piccolo, mi sentivo schiacciata dal peso della responsabilità, guardavo la mia vicina di letto così impaziente di essere dimessa e mi chiedevo “Ma come fa?”. Mi guardo indietro adesso, e mi accorgo che sola non sono mai stata, ma tant’è…

Potrei, in questo giorno così speciale, dirti che si è subito creata empatia tra noi, che ti ho sempre capito e ho sempre saputo in cuor mio quale era la cosa giusta da fare con te, perché l’istinto di mamma non sbaglia mai.                               E invece ti dirò che ho sbagliato, più di qualche volta, che i tuoi pianti all’inizio non li sapevo decifrare e scambiavo fame per coliche o viceversa, e, che, soprattutto per la questione allattamento, mi sono a lungo sentita un’incapace. Ti dirò che l’istinto di mamma si è affinato col tempo, perché col tempo abbiamo imparato a conoscerci.

Potrei, in un giorno così speciale, decantare le meraviglie di questo attaccamento viscerale che ci ha unito fin dal primo istante, senza che il taglio del cordone ombelicale potesse minimamente intaccarlo.                                                      E invece ti dirò che ti ho riconosciuto subito come una persona A SE’, come ALTRO da me, e che, probabilmente a causa delle turbolenze iniziali, non ti ho guardato fin dal primo istante con gli occhi a cuoricino, ma anzi nei primi mesi ti guardavo pure con un certo distacco. Ti dirò che, forse per il mio carattere così razionale, poco incline ai colpi di fulmine, il mio è stato un innamoramento lento, ma in costante e inarrestabile crescita. Che il nostro legame extrauterino non ha nulla a che vedere con quanto abbiamo vissuto nei nove mesi di coabitazione, è un legame ex-novo, che si è rinsaldato passo dopo passo e, a sorpresa, si sta rivelando altrettanto viscerale.

Potrei dirti che ho fissato questi pensieri proprio oggi, 1° dicembre 2010, in questo giorno così speciale in cui raggiungi un traguardo importante, tra un festone e una torta su cui campeggia un’unica, solitaria candelina, la prima di una lunga serie. Una festa per te, ma anche per me.                                                                                                                     E invece ti dirò che questi pensieri sono scaturiti domenica, dopo che ti ho portato nel lettone con me per il riposino, e ti sei accoccolato tra le braccia, addormentandoti all’istante. Ti guardavo, moccoloso e un po’ insofferente a causa del primo raffreddore della tua vita, i tuoi ricci scompigliati, una manina che stringeva Orsonanna e l’altra che cercava la sicurezza del contatto. Sono rimasta a guardarti un bel pezzo, avrei continuato tutta la mattina, e non sai quanto mi è spiaciuto cedere al richiamo delle faccende domestiche. Volevo consolarti, proteggerti, guarirti. Ed è stato lì, in quel momento, tornando indietro con la memoria ai primi momenti e a tutti quelli che sono seguiti negli ultimi 365 giorni, è stato in quel momento che tutto l’amore costruitosi pian piano si è espresso in tutta la sua pienezza.

Buon compleanno, amore mio.

Tempi migliori cercasi

Sto fissando il pc con gli occhi ancora stropicciati dal sonno, e l’indice dell’umore ai minimi storici. La giornata di pioggia battente non aiuta, il fatto di essermi alzata col buio pesto e la sensazione di non essere mai andata a letto, nemmeno.
È di nuovo lunedì, si ricomincia con imprecazioni bisbigliate che fanno da contrappunto ai BIP della sveglia, con le baby pappe programmate al dettaglio (… non ne posso più!!!! Ma quando mette altri due-denti-due in modo da poter cominciare ad assimilare la sua dieta alla nostra???), con la scorta di passato di verdure frullata alle dieci di sera, con le corse che mi fanno assomigliare alla biglia impazzita in un flipper.
Si ricomincia con lo sguardo interrogativo e leggermente inquisitorio del Folletto, mentre lo scarico tra le braccia della nonna dopo 2 intere giornate passate con me e che, già lo so, si tramuterà in una punitiva indifferenza al mio ritorno. Si ricomincia con la pessima, orribile impressione di non riuscire a dedicargli abbastanza tempo, e al momento il refrain del “tempo di qualità” non mi convince. Si ricomincia con la brutta sensazione di perdere il contatto con lui, di non essere io a dargli i primi fondamentali insegnamenti. PERCHÉ NON CI SONO,e quando ci SONO devo barcamenarmi tra lo stare con lui e occuparmi di altre enne cose, per poter essere anche una brava moglie/dama del focolare, oltre che una brava mamma. I sensi di colpa sono come la sfiga, ci vedono benissimo, e per quanto tenti di inserire la modalità guerriera e schivarli al grido di “non mi avrete mai!”, loro ti fregano sempre e comunque.
Il consorte aiuta, per quello, certo non si ammazza durante la settimana però se c’è da preparare la cena mentre io do la pappa al piccoletto (o viceversa) non si tira indietro. È più partecipe nel weekend, soprattutto quando, forse in concomitanza con la luna piena, si trasforma nella colf assassina e non si placa fino a quando l’angolo che ha deciso di pulire (perché tendenzialmente la furia si concentra su un punto preciso, che so, l’angolo cucina o il bagno) non è tirato a lucido.
Solo, non riesce a capire davvero la mia necessità di passare più tempo col bimbo. Non capisce il motivo della mia reticenza a lasciarlo ancora alle cure dei nonni se noi siamo a casa, né il mio sorriso di circostanza quando mi sento dire dalla suocera “Eh, il nonno si chiede come mai il suo nipotino sparisce il sabato e la domenica… ma io gli dico che ci sono anche gli altri nonni e i suoi genitori” (ECCO BRAVA! E se è necessario, glielo ribadisco io…). Non concepisce che possa essere gelosa, d’altronde sono i suoi genitori, d’altronde lui è venuto su con sua nonna pertanto crede che questa sia la normalità. Dovrei essere più diretta e dirgli che per me, cresciuta con mia madre e con l’unica nonna a più di 500 km di distanza, è dura vedere mio figlio non buttarmi le braccia al collo, anzi piangere e disperarsi perché lo porto via. È fatica  ricacciare indietro le lacrime e abbozzare sorrisi tirati, tanto più se sua nonna, che in certi frangenti non è di certo una campionessa di sensibilità, non perde occasione per pigolare “No, aspetta che non mi faccio vedere dal piccolo, che sennò poi piange” (tranne poi piazzarsi fuori dalla finestra a fare ciao ciao con la manina). E no, non è normale.
Ho scelto io di rientrare a lavoro relativamente presto, l’ho fatto in maniera consapevole, per una maggiore tranquillità di tutti. Sono rientrata anche perché avevo la disponibilità dei nonni, che – devo riconoscerlo altrimenti li dipingo come mostri! 🙂 – sono bravi e attenti, e questo mi fa passare la giornata lavorativa serena, sapendolo sereno nel suo ambiente. Ho anche valutato il fatto che più tempo lasciavo passare, più il distacco rischiava di essere traumatico per il Folletto. E, finora, non mi sono pentita. Ma ora io, che ho sempre guardato con sospetto i figli mammoni, e ho cercato di coltivare fin da subito l’autonomia della prole, guardo con un po’ di invidia le mamme con i figli aggrappati come koala.
Sapevo che la crisi sarebbe arrivata, ora speriamo passi presto. Probabilmente, basta solo aspettare che diventi un po’ più grandicello, e che certe incombenze spariscano (leggasi menù differenziati in famiglia), perché tutto si ridimensioni. Intanto, l’importante è che non dubiti mai, che lui è il mio amore grande, il mio orgoglio, la mia vita. E questo, son sicura, lo legge tutti i giorni nei miei occhi e nei miei sorrisi. In attesa di tempi migliori.

In nomen omen (sottotitolo: Le vite degli altri)

Sabato mattina, il consorte riceve un sms… “Toh, è nato il figlio di M… l’ha chiamato Giacomo!”
Ma ddaii” rispondo io “pensa che non sapevo neanche che fosse incinta!
M. è l’ex di mio marito, una che, per intenderci, ci ha messo quasi 3 anni a rendersi conto che la loro storia era finita. Un’ombra che ha pesato sul nostro passato e che ha rischiato di compromettere il nostro futuro. Una che giocava a fare l’amica senza fare gran mistero delle sue mire di riconquista (perché, cara gattamorta, certi intenti sono fin troppo chiari quando gli “Oh, che bello! Come sono felice per voi!” suonano falsi come un Picasso Made in China)… una che avrebbe venduto l’anima al diavolo per essere al mio posto. Una Sopra-le- Righe, la definisce mio marito. Una Inopportuna, la definisco io.
Ecco, questa persona partorisce e come ti va a chiamare il pargolo? Proprio con lo stesso nome di nostro figlio. Mi chiedo se il suo compagno sa di questa curiosa coincidenza. Bah.

Ora…

LO SO che potrebbe essere un caso,
LO SO che si tratta di un nome evergreen, classico senza essere scontato,
LO SO che, per quanto ne so io, è il nome dei suoi sogni, quello che con cui ha chiamato il suo primo bambolotto, quello scritto sui diari adolescenziali “Quando avrò un figlio, lo chiamerò così”,
LO SO che potrebbe essere il nome del suo adorato nonno, recentemente scomparso,
LO SO che sto interpretando le intenzioni, e non sta bene,
LO SO che questo post è una nota stonata, nel giorno della solidarietà femminile.

RAZIONALMENTE SO TUTTO QUESTO
PERO’
Visto il personaggio, io continuo a trovarla una scelta di pessimo gusto.

A questo bimbo piccino picciò, auguro solo, con tutto il cuore, di non essere figlio dell’emulazione (e scusate la cattiveria).

I cinque sensi

Una vecchia canzone. Un’immagine che torna, prepotente, e ne inanella dietro di sé molte altre, perle incastonate che scorrono sul filo della memoria. Vivide, presenti, così forti che chiudo gli occhi, e ne sento anche l’odore. Come se fossero passati giorni e non anni.

Parole dette, sussurrate a volte urlate, parole scritte, con quella scrittura così particolare, che anche ora sarei in grado di riconoscere tra mille, parole che hanno fatto correre un brivido dietro la schiena. Parole che hanno rapito il cuore e la mente, parole importanti che hanno stupito per la naturalezza con cui sono sgorgate. Parole dure, difficili da digerire, che solo il tempo e la lontananza hanno saputo ridimensionare. Parole malinconiche, stanche e rassegnate, a sancire quello che entrambi sapevamo già.

Parole registrate, ascoltate per la prima volta nella fredda stanzina di un pensionato per avvicinare chi fisicamente non può esserlo, basta chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare, e distanze contrassegnate da km e km di betulle scompaiono magicamente. E quasi riesci a toccarti.

Abbracci. Virtuali, passionali, teneri quando strappati a un tempo inesorabile, caldi come il tepore della propria casa in autunno. Abbracci agognati, e arrivati dopo un lungo viaggio nella notte. Intreccio di braccia a sciogliere tensioni. Il perdono che pervade ogni meandro, e cancella gli ultimi scampoli di rabbia. E di nuovo sensazione di casa, di una rinnovata serenità.

Sapori. I pranzetti che preparavi, così curati nella loro semplicità universitaria, i sapori della tradizione della tua terra, a me così cari. Il sapore della mela proibita assaggiata insieme. L’amaro in bocca che sono sicura di averti lasciato.

L’ultima immagine, la tua macchina che si allontana fuori dalla stazione, la tua nuca irrigidita, nello sforzo di trattenere più che comprensibili lacrime. Avevi un lungo viaggio davanti, e tutto il tempo per piangere. Lo sapevi che sarebbe stato un addio, ma non lo volevi. Ti avevo detto che avrei preso un treno per tornare, ma non è così che è andata. Ho aspettato un’altra macchina, e sono salita: mi ha portato a casa quello che sarebbe diventato mio marito.

Una canzone ascoltata sul divano, ieri sera, e la nostalgia mi ha pervaso, spalancando questa scatola del passato, scatenando i cinque sensi della memoria. Nostalgia per quello che è stato, e per quello che avrebbe potuto essere. E la tentazione, fortissima, di alzare il telefono e dire “Ciao, come stai? Grazie di tutto. E scusami per il dolore che ti ho causato.”

Ho ripreso quella scatola, l’ho spolverata, ed ora è di nuovo al suo posto. In un posto speciale del mio cuore. Ma, anche se la nostalgia si è dissolta alla luce del nuovo giorno, mi è rimasta la voglia di fare quella telefonata.

Certezze incrollabili

Quando fai rifornimento al mattino, stai pur certo che al pomeriggio il gestore avrà ritoccato i prezzi…al ribasso.

Il pesto non è pesto senza l’aglio, nella carbonara non ci va la panna e gli spaghetti o si mangiano interi o si cambia formato di pasta.

La mamma dei cretini è sempre incinta, ecco perché c’è sempre in giro un incivile che gioca al creativo con la chiave sulla carrozzeria di una macchina altrui.

Quando arriva questa data è ormai tempo di vendemmia… e di carri d’uva che bloccano il traffico per raggiungere la cantina, mettendo a dura prova la tua pazienza.

Il giorno del tuo compleanno, stai pur certo che qualcuno ti manda un messaggio di auguri a mezzanotte…. così, per il gusto di essere il primo, anche se sa che probabilmente lo leggerai la mattina.

E allora, quando senti questo e molto altro affetto intorno a te, del resto che ti importa? 🙂

Il grande salto

Giorni concitati, causati solo minimamente dall’approssimarsi della prima vacanza baby-muniti. Vacanza allo sbaraglio, per di più, dato che la settimana di ferie per la sottoscritta è stata una gentile concessione piovuta dal cielo un po’ all’improvviso. Detto, fatto, si parte. Ma senza prenotare: rapido giro su internet per verificare situazione agriturismi nella zona prescelta, e una volta accertato che non sono propriamente in overbooking nonostante sia la settimana clou delle vacanze, abbiamo optato per la soluzione “cerchiamo la sistemazione in loco”. Da un lato ci mettiamo al riparo da sgradevoli sorprese urca-ma-qui-non-è-come-in-foto – e magari è costato pure una fortuna – , dall’altro questa tecnica, con un bimbo 0.8 che necessita di un rimorchio solo per le sue cose, porta con sé una sottile ansia, a cui cerco di non pensare.

Ma non è l’unico salto che ci prepariamo ad affrontare un po’ ad occhi chiusi. Il Folletto sta affinando la tecnica, e ritenendo cosa abbastanza frivola e poco incline alla sua natura il semplice gattonamento, preferisce di gran lunga provare direttamente a camminare sulle sue gambe. Certo, per ora bisogna reggerlo saldamente e, diciamolo pure, alcuni fondamenti ancora gli sfuggono, vedi il fatto che preferisce stare sulle punte stile ballerina della Scala piuttosto che appoggiare a terra la pianta dell’adorato piedino. Ma temo che sia davvero questione di poco, e il “grande passo” si compirà. Quando accadrà, la felicità e l’orgoglio scacceranno il groppo che mi si sta già formando in gola, vero? Me lo ripeto come un mantra…

E mentre il piccoletto prepara il grande salto nel mondo dei bipedi, io sto seriamente valutando il mio personale salto nel mondo del MAC. Il portatile che uso a casa è ormai alla frutta, e oltretutto ce l’ho in comodato d’uso dall’Azienda… ergo, visto che ora per lavoro non mi serve, vorrei restituirlo io prima che me lo chiedano loro. Dopo lunghe riflessioni, tentennamenti vari, pro e contro snocciolati da fautori/detrattori, ho soppesato il tutto e sono propensa a “passare dall’altra parte della barricata”. Con un po’ di incoscienza, sapendo che dovrò disinstallare il mio programma mentale per l’utilizzo del computer e sostituirlo con il sistema operativo a forma di Mela, e che la cosa richiederà tempo (e già qui…) ed esercizio. Che mio marito, Apple-scettico, mi guarderà sempre con sguardo riprovevole e al primo uff! farà scattare la tiritera “ma-cosa-ti-sei-pensata-vedi-a-far-sempre-di-testa-tua”.

Eccoci qua, pronti o quasi a saltare. Un respiro profondo, occhi chiusi e prendiamo la rincorsa.


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